Mio caro Marco,
Sono andato stamattina dal mio medico, Ermogene, recentemente rientrato in Villa da un lungo viaggio in Asia. Bisognava che mi visitasse a digiuno ed eravamo d’accordo per incontrarci di primo mattino. Ho deposto mantello e tunica; mi sono adagiato sul letto. Ti risparmio particolari che sarebbero altrettanto sgradevoli per te quanto lo sono per me, e la descrizione del corpo d’un uomo che s’inoltra negli anni ed è vicino a morire di un’idropisia del cuore. Diciamo solo che ho tossito, respirato, trattenuto il fiato, secondo le indicazioni di Ermogene, allarmato suo malgrado per la rapidità dei progressi del male, pronto ad attribuirne la colpa al giovane Giolla, che m’ha curato in sua assenza. È difficile rimanere imperatore in presenza di un medico; difficile anche conservare la propria essenza umana; l’occhio del medico non vede in me che un aggregato di umori, povero amalgama di linfa e di sangue. E per la prima volta, stamane, m’è venuto in mente che il mio corpo, compagno fedele, amico sicuro e a me noto più dell’anima, è solo un mostro subdolo che finirà per divorare il padrone. Basta…
Marguerite Yourcenar – Memorie di Adriano (Incipit) – 1951.
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Sono sessant’anni che albergo in questo corpo e solo adesso comincio a sentirlo come la mia casa.
Di questo insieme percepivo solo vagamente la complessità. Le strutture e gli organi li sentivo solo a volte, separati, uno ad uno, quando qualcosa non funzionava e le parti diventavano un peso, un impiccio, una frazione inadeguata da modificare o addirittura di cui sbarazzarsi.
Solo in qualche raro momento sono arrivato a sentirlo tutto, nel sua interezza, di solito mentre galleggiavo in mare e ancor più quando, uscito dall’acqua, mi sdraiavo a cuocere sulla sabbia, oppure dopo una salita in montagna, sdraiato a terra, con gli occhi al sole. E la percezione dell’intero non era disgiunta da quella di appartenenza, vuoi all’acqua, vuoi alla sabbia o alla terra o ancora all’aria e al sole.
Mi chiedo come ho fatto a non pormi prima questa domanda: perchè non ho consapevolezza del mio corpo, perchè lo sento al più come un insieme di pezzi? Scavando negli anni, già fin dall’infanzia, non ho ritrovato insegnamenti e abitudini consone ad aiutarmi e spingermi ad amare il mio corpo, per quello che è, nella sua totalità?
Non nella famiglia, neppure nella scuola, tantomeno nell’ambito della sanità e nell’ambiente religioso: scarsa attenzione per il corpo, inteso solo come entità indefinita di servizio a cui richiedere, senza concedere. Una sostanziale mancanza di riconoscimento e quindi di considerazione e di rispetto per la sua interezza, che già è poco in confronto ai sentimenti di compassione ed amore che comincio a provare, solo ora.
Cì è voluto l’accumulo di tensioni, la malattia e l’incontro risolutivo con alcune persone per trovare la guarigione, quel percorso di miglioramento, lungo tutta la vita, che passa necessariamente attraverso la ritrovata consapevolezza del proprio corpo.
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Quando ho bisogno siedo di fronte alle stelle
come in un fiume mi spoglio
e con gesto da film espongo la pelle
alieno buono
mi faccio antenna del mondo
convoglio messaggi dagli astri
quel tanto che serve a sentire intero il mio corpo
non pretendo che l’acqua bolla sotto le piante
le mie gambe mettano ali o il sangue inverta il suo corso
mi basta ricucire i pezzi
col respiro del sole
dar voce al chiaro e allo scuro
sentire come mia
anche la parte negletta
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Franco A. Canavesio – Intero – 1 ottobre 2013