Se me lo chiedessi

Torino -  Piazza Castello di notte

Torino – Piazza Castello di notte

Se me lo chiedessi ora
in questa piazza
ti potrei dire che è facile camminare sulle stelle
anche se non sono attrezzato
senza scarpe adatte

più che di cielo e una questione di aria di pietre
di luci dietro ai vetri
e di fanali spenti
e se anche le stelle non le vedo
so che si accenderanno
sulla piazza
e le sento come pavimento
sulle piante dei piedi
come fossi girato
a testa ingiù

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Franco A. Canavesio – Se me lo chiedessi – 14 ottobre 2013, Piazza Castello, ore 19
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Torino -  Piazza Castello di notte

Torino – Piazza Castello di notte

Non hanno capito nulla

Giuseppe e Domenico Valeriani - Affreschi della volta del Salone centrale della Palazzina di Caccia di Stupinigi

Giuseppe e Domenico Valeriani – Affreschi della volta del Salone centrale della Palazzina di Caccia di Stupinigi

Stamattina sono stato ancora una volta in visita alla Palazzina di Caccia di Stupinigi. Forse anche grazie alla complicità del tempo grigio e piovoso mi è balzato evidente che i fratelli Valeriani erano un secolo indietro e di Juvarra non capirono nulla. Non bastò loro la scuola veneziana del Ricci: rromani nacquero e rromani morirono.

Non colsero quell’anelito che mirava a legare il dentro e il fuori, il nord e il sud con lo zenit, l’idea di leggiadra leggerezza che aveva addirittura spinto l’architetto sabaudo a pensare ad un salone aperto, senza volta, per far entrare il cielo!

E immagino lo sconcerto del messinese quando vide completati gli affreschi della volta. Figure cariche e sovrabbondanti, mancanza di equilibrio tra pieni e vuoti, toni pesanti; un senso di greve che si alleggerisce appena un po’ negli affacci alle finestre di est ed ovest.

Sono drastico, fossi stato Carlo Emanuele III non avrei sganciato uno scudo ma, vestitili da cervi, avrei mollato i cani e  fatto un fischio al giovane Tiepolo.

Giuseppe e Domenico Valeriani - Palazzina di Caccia di Stupinigi (III)

Giuseppe e Domenico Valeriani – Palazzina di Caccia di Stupinigi – Salone centrale, particolare della volta

Giuseppe e Domenico Valeriani - Palazzina di Caccia di Stupinigi (V)

Giuseppe e Domenico Valeriani – Palazzina di Caccia di Stupinigi – Vista del salone centrale dalla balconata

Giuseppe e Domenico Valeriani - Palazzina di Caccia di Stupinigi (II)

Giuseppe e Domenico Valeriani – Palazzina di Caccia di Stupinigi – Salone centrale, particolare della volta)

Giuseppe e Domenico Valeriani - Palazzina di Caccia di Stupinigi (IV)

Giuseppe e Domenico Valeriani – Palazzina di Caccia di Stupinigi – Salone centrale, particolare della volta

Viaggiare, sì viaggiare

Antonio e Pietro del Pollaiolo, L'arcangelo Raffaele e Tobiolo, 1465-70, Museo Civico di Palazzo Madama, Torino

Antonio e Pietro del Pollaiolo, L’arcangelo Raffaele e Tobiolo, 1465-70, Nuova Galleria Sabauda, Torino

 

Viaggiare e avere un lavoro, le due cose che i giovani più desiderano oggi.
Sì, viaggiare (evitando le buche più dure) e imparare il mestiere. Questa era la strada dei giovani figli di mercanti e banchieri fiorentini del Quattrocento, con l’obiettivo di garantire la continuità delle attività commerciali e l’accrescimento della ricchezza delle famiglie.
Sui quindìci anni partivano per il tirocinio in città lontane, un viaggio lungo settimane per raggiungere Parigi e poi le Fiandre, con Bruges e Anversa, e di lì per alcuni, affrontare il mare, destinazione Londra.
Un percorso insidioso, le Alpi da traversare e si andava a piedi, perchè le cavalcature erano riservate ai più anziani mentre i giovani potevano solo contare su suole e muscoli.
Si muovevano con poco bagaglio e tanta voglia di sfida e di futuro.
Erano in compagnia di mercanti vecchi del mestiere, che utilizzavano il cammino per insegnar loro rudimenti e malizie, un duro apprendistato e tutto il viaggio era uno stimolo, un esame, un confronto per dimostrare di essere capaci ad affrontare l’imprevisto, adattarsi, sfruttare al meglio le occasioni: un percorso di iniziazione.

In un’avventura tanto impegnativa, di certo un angelo custode è di aiuto per chi viaggia e di conforto per la famiglia che resta e la raffigurazione di Tobiolo con l’ Arcangelo è un talismano, un’immagine devozionale di buon auspicio che viene ripetutamente commissionata alle botteghe dei pittori fiorentini. Primi fra tutti i Pollaiolo, intorno alla seconda metà del Quattrocento, riprendono la storia biblica di Tobiolo  e la riportano nella realtà del tempo in una sorta di raffinato ex voto, di una grazia leggiadra.
Manti, panneggi, cappelli e calzari, un cagnolino, altrettanto elegante nell’incedere tra erbe e fiori.

L’arcangelo è Raffaele, il custode più attento a governare le intemperanze giovanili, tanto che la Confraternita del Raffa, in Firenze, aveva appunto il compito di tenere a freno i giovani troppo turbolenti.

Il ragazzo è Tobiolo, figlio di Tobia di Ninive che, diventato cieco, è costretto ad inviare il giovane in un paese lontano, in cerca di lavoro e così salvare se stesso e la famiglia dalla miseria. Tobiolo ha timore del viaggio, prega Dio e ottiene una creatura celeste (l’arcangelo Raffaele) come guida e compagno.
Durante il guado di un fiume i due si imbattono in un pesce enorme che sbuca dalle acque e cerca di divorarli, ma insieme lo uccidono e ne estraggono il cuore, il fegato e il fiele che l’angelo indica di conservare con cura: sa bene che al tempo giusto saranno utili.

Nel viaggio incontrano una famiglia disperata. La figlia, Sara, è andata in moglie ben sette volte e un demone feroce le ha ucciso i mariti, uno ad uno, non appena entrati nella camera nuziale. Tobiolo non ha timore, con l’aiuto della guida sconfigge il demone assassino, bruciando con una sorta di esorcismo cuore e fegato del pesce e da buon ultimo, prende in sposa la bella Sara. Insieme tornano a Ninive e ridanno la vista a Tobia, col fiele che Raffaele ha serbato in una piccola scatola dorata.

L’arcangelo ha assolto al suo compito e Tobiolo ha compiuto la sua prova d’iniziazione: è partito ragazzo ed è tornato uomo.

Pollaiolo, Andrea del Verrocchio, Francesco Botticini, Filippino Lippi, (galleria) trattano lo stesso tema, con la stessa grazia, e quasi identica iconografia.
Centrale è il viaggio, la direzione e il braccio a cui poggiarsi. I simboli sono discreti ed egualmente potenti: il pesce e il credito (la lettera di cambio che permetteva di ritirare denaro ovunque se ne avesse bisogno), due strumenti di salvezza in mano al viaggiatore.

Tiziano Vecellio, Tobiolo e l'Angelo, Olio su tavola, 1512-14, Gallerie dell' Accademia, Venezia

Tiziano Vecellio, Tobiolo e l’Angelo, Olio su tavola, 1512-14, Gallerie dell’ Accademia, Venezia

Con un salto di mezzo secolo, quello del Tobiolo con l’angelo biondo del Tiziano , più che  un viaggio è un’ amena passeggiata nel paesaggio rinascimentale. Se fa fede lo stemma nobiliare, il bimbetto grassoccio dai tratti feminei è un nobile virgulto della casata dei Bembi. Ci appare come rapito dal fare deciso e insieme dolce dell’angelo. Ma non ha interesse per il suo indicare. Troppo giovane, è troppo presto per lui e nelle sua mano il pesce pare uno strano giocattolo di legno da far galleggiare nell’ansa del Brenta, poco distante.

Giovanni Gerolamo Savoldo, Tobia e l'angelo,  olio su tela, 1527 circa, Galleria Borghese, Roma

Giovanni Gerolamo Savoldo, Tobia e l’angelo, olio su tela, 1527 circa, Galleria Borghese, Roma

Un decennio più tardi Giovanni Gerolamo Savoldo, in “Tobia e l’angelo,” tratta lo stesso tema, con altra visione ancora, questa volta slegata da qualunque realtà attuale. Il cielo è inquieto, la luce che trapassa le fronde investe entrambi, li riveste della stessa forza, degli stessi balenanti colori. In un apparente momento di quiete pastorale, il cane accucciato dorme, profondamente, e l’angelo indica la prima prova: affontare e catturare il pesce salvifico, un simbolo appena accennato. Non c’è traccia di avventura, di viaggio, solo il legame di forma e colore, un processo di progressivo avvicinamento dell’allievo al maestro.  Non fosse per le ali, i due parrebbero indistinguibili.

Dirck van Baburen (1595, Utrecht, - 1624, Utrecht), Tobia e Raffaele,  Corsham Court, Wiltshire

Dirck van Baburen (1595, Utrecht, – 1624, Utrecht), Tobia e Raffaele,
Corsham Court, Wiltshire

Un secolo più tardi Dirk van Baburen  sconvolge tutto, l’dentità dell’Angelo, di Tobiolo e il pesce simbolo si fa enorme, carne viva. Terza persona nel quadro respira aria di terra, con umani polmoni. E anche l’angelo è terrestre, denso di umane passioni e quel prendere per mano lo sprovveduto Tobiolo è mossa ambigua: ” Vieni, so io cos’è meglio per te. ”
Il ragazzotto mostra insieme  timore e attrazione per quel giovane angelo dalle ali scure e brillanti, dalla pelle splendente e quel volto con le occhiaie, da malandrino dei bassifondi di una città di mare che, ci metterei la mano sul fuoco, lo spingerà nella prima casa di meretricio, appena girato l’angolo del vicolo.
Dopotutto anche questa è un’iniziazione, mentre Tobiolo farà per la prima volta l’amore, il pesce finirà a tranci in padella, nella cucina del bordello e nulla andrà sprecato. Cuore, fegato e fiele, sberleffo alle Scritture, finiranno in pancia ai gatti.

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Dispari

Dispari

Cinque-uno-cinque, ma potrebbe anche essere tre-uno-cinque, oppure uno- cinque-tre. Basta siano dispari.

Non sono stravaganti moduli tattici del calcio ma un punto di vista, per leggere o impostare la costruzione di un’immagine, posando l’attenzione sul dispari.

Al sopore rassicurante delle simmetrie, il dispari regala un tocco di movimento e la scena si anima in un equilibrio dinamico, perchè dispari è vita.
C’è sempre un dispari, basta cercarlo.

Quando tutto pare bloccato,  in simmetria
l’occhio insegue il dispari, spettinato
che scappa, da qualche parte

corre sulla ghiaia del viale
si ferma di botto a contare i cipressi
cinque

riprende, spalanca la porta
va a destra in cerca del buio
gli scuri serrati
uno

riposa nell’ombra ritorna sui passi
si siede sul bordo dell’acqua
ninfee a foggia di stella
cinque

corre, si muove fresca la vita
nel dispari
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Franco Antonio Canavesio – Dispari – 28 febbraio 2013

Santi beati

Sorrideva beato, se la rideva beatamente … modi di dire, consolidati. Ma non vale per tutti, ad esempio mi sono sempre chiesto perchè i Santi dipinti non ridono o almeno sorridono. La beatitudine, la perfetta letizia di un rapporto d’ amore diretto col Padre Eterno dovrebbe in qualche modo venir fuori anche dall’espressione del volto, diamine!
E anche se non appare, sono sicuro che nella loro vita i Santi hanno sorriso e riso, anche molto e di gusto, e fatto ridere e sorridere chi stava loro vicino.
Non riesco ad immaginare San Francesco senza un tratto di gioia sulle labbra e neanche la sua amica Chiara, santa anche lei e con un nome che già da solo è un’espressione di letizia.
Ridevano, sorridevano, faceva parte della loro natura, del loro destino!

Quattro Sante - Giovanni Martino  Spanzotti

Quattro Sante – Giovanni Martino Spanzotti

Ci è voluto questo dipinto dello Spanzotti per farmi capire che anche lui, cinque secoli fa, la pensava come me. Due tavole di una naturale letizia, a destra quattro Sante e a lato quattro Santi, più un altro nobile che si fa chiamare donatore. Cominciamo dalle femmine, s’incontrano tra gli ori nella loggia del Paradiso e sembrerebbero quattro sorelle in cerca di marito, non fosse per quegli strani simboli che portano in mano. E sorridono beate, appunto, nonostante la vita abbia riservato loro esperienze durissime, fino al martirio. Non bisogna farsi trarre in inganno dai gioielli che cingono i lunghi colli di Barbara, Caterina d’Alessandria e Margherita d’Antiochia, non sono un vezzo o doni di giovani spasimanti ma nascondono il segno preciso dove è calata la mannaia.

L’unica che si è salvata il collo è Maria Maddalena, infatti niente collana ed è anche un po’ pensosa, come a dire: “Che ci sto fare con queste tre martiri?”  E intanto se la contano. Appena incontrate per l’invito alla festa, si sono guardate con un po’ di imbarazzo poi hanno celato il riso con un gesto della mano: erano finite tutte dallo stesso parrucchiere! Identica pettinatura, stessa tinta, pure il trucco e la manicure (dita lunghissime, come i colli, peccato che non avessero ancora inventato il pianoforte), insomma quattro gemelle anche se nate ai quattro angoli del mondo! Per fortuna non hanno scelto anche lo stesso sarto, quello di Barbara doveva essere alle prime armi perchè ha preso male le misure, abito troppo lungo e deve tiralo su davanti, per non inciampare. E le altre ridacchiano, mica per l’abito, ma per quella torre fuori misura, che rischia di caderle di mano. Va bene che con quelle tre finestre sta a rappresentare Il Padre, Il Figlio e la Colomba e in questo caso le misure hanno la loro importanza, ma l’effetto è strano… no, non vogliono neanche pensare a cosa sembra (no, no, loro sono Sante e poi sarebbe troppo fuori misura).

Quattro Santi -  Giovanni Martino Spanzotti

Quattro Santi – Giovanni Martino Spanzotti

Ma è un’attimo, si ricompongono subito alla vista di quel quintetto che le sta aspettando sulla sinistra della sala e guarda verso di loro, con interesse.

Un gruppo assortito. Già si capisce che quel trombone di Sant’Antonio Abate, diventato un orso dopo una vita da eremita, non interessa a nessuna. Sembra meglio il nobile donatore piuttosto, e anche se non è santo, pazienza. Francesco non è male ma è troppo giù di corda, ci vorrebbe un mezzo miracolo per rimetterlo in sesto per la festa o che almeno Chiara le montasse uno zabaione con un bicchiere di quello buono, avanzato dalle nozze di Cana. Invece Giovanni e Sebastiano stuzzicano! Diversi, ma niente male. Il primo un po’ figlio dei fiori, lo sguardo furbetto, l’altro sornione, un tipo che ci sa fare, anche se circolano voci su quegli strani rapporti tra lui e gli Angeli che gli han tolto le frecce. Male lingue terrene, qui non si sparla di nessuno.

Sveglia ragazze, si fa tardi e bisogna decidere! Oggi in Paradiso è come il primo di novembre in Terra, c’è festa di tutti Santi e stasera si balla, bisogna scegliere il cavaliere e uno dei cinque resterà con la scopa o se preferisce, con la torre. Sempre che Barbara si decida a posarla, se vuole ballare.
Una curiosità, mi ero chiesto dove erano finiti il lupo di Francesco e l’agnello di Giovanni. In Paradiso possono entrare tutti, anche gli animali, quindi mi aspettavo di vederli. Tranquilli, non è successo nulla di ciò che verrebbe da pensare, capita solo in Terra che i lupi sbranino gli agnelli. Prima li ho visti dietro una colonna che provavano un minuetto e a fianco c’era anche il Diavolo, travestito da serpente (che fantasia).
Ma lui ballava da solo.
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Giovanni Martino Spanzotti

Casale Monferrato (?), 1455 circa
Chivasso (?), Torino, 1526/1528

I Santi Francesco d’Assisi, Sebastiano, Giovanni il Battista
ed Antonio Abate con il donatore

Tempera su tavola 124×66,5

Le Sante Barbara, Caterina d’Alessandria, Maddalena
e Margherita d’Antiochia

Tempera su tavola 124×67

Insieme alla Madonna Tucker nei Musei Civici di Torino e all’affresco raffigurante l’Adorazione del Bambino nella chiesa di San Francesco a Rivarolo Canavese, le due tavole figurano tra i numeri più antichi del catalogo di Spanzotti, membro di una famiglia di pittori lombardi stabilitasi a Casale Monferrato entro il 1470.
La sottile scrittura pittorica, la limpida intensità del colore, l’ornata eleganza classica del loggiato sullo sfondo attestano, verso il 1475-1480, l’aggiornata modernità del giovane Spanzotti che doveva aver compiuto il proprio percorso formativo a Bologna, presso Francesco del Cossa .
In origine i due pezzi facevano parte del registro principale di un polittico: già conservati presso i padri Rosminiani di Stresa e forse provenienti dalla Val Vigezzo, essi sono entrati in Sabauda nel 1973.
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Fotografie di Franco A. Canavesio

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Un uomo

Ritratto d'uomo - Antonello da Messina (1476) - Palazzo Madama - Torino

Ritratto d’uomo – Antonello da Messina (1476) – Palazzo Madama – Torino

Oltre la porta della Torre dei Tesori di Palazzo Madama c’è un uomo ritratto cinque secoli fa da Antonello da Messina ed ha il viso fresco come una rosa.

Dalla penombra, quasi affacciato ad una piccola finestra, sta di tre quarti, nella luce che potrebbe essere di un tardo pomeriggio ma a ben guardare non può che essere mattutina, vista la rasatura di fresco che sa di pannicelli caldi, appena tolti, e ben evidenzia lo scuro maschio dei baffi. Fa contrasto all’ordine terso del volto quella perla carnosa, tra le rughe appena tracciate della fronte e il sopracciglio scomposto, una virgola a dare movimento.

Ma gli occhi sono tutto! Dietro quell’espressione altezzosa c’è una moglie, nell’ombra e dieci figlie che si inchinano al suo passare, anche dei figli maschi, già adulti, che scalpitano ma ancora non reggono lo sguardo del padre.

Il piglio è quello di un mercante o forse di un amministratore ambizioso che ha accumulato con ogni mezzo terre e poderi, a perdita d’occhio. Lo vedo a cavallo tra vigne quasi mature, ulivi e campi di stoppie. A giusta distanza, controlla granai ricolmi, giare e botti nell’ombra delle cantine.

Con lo sguardo abbraccia il suo spazio, oltre la tela, e chiusa nello spazio la roba accumulata nel tempo. Sua, tutta sua.

E ora lo hanno rinchiuso in una torre, senza finestre, senza spazio. Contrappasso, intorno roba troppo preziosa e lui, dipinto, diventato a sua volta roba per nobili. Altra gente, altra razza.

La giubba severa, cade a pennello. Pieghe perfette, segni incisi sul panno di porpora non arrivano al cuore che ancora batte, di sotto.

Bisognava osare di più, fare un salto avanti nel tempo, chiedere a Lucio di tagliare di netto la giubba, la tela e anche il legno. Cercare dietro lo spazio,  il cuore in attesa di mostrarsi, con un fiotto rosso.

Ma forse bastano gli occhi.

Concetto spaziale - Attese - Lucio Fontana 1961

Concetto spaziale – Attese – Lucio Fontana 1961

 

Prologo

Galleria Sabauda - Spina Reale - Torino

Galleria Sabauda – Spina Reale – Torino

Nel mio girare per mostre e musei, si è rafforzato nel tempo il desiderio e il piacere di un colloquio, non solo di sguardi tra me, dapprima spettatore e poi via via anche attore, e le opere esposte.

Questo termine esposte ha dei limiti, se inteso nel significato di mettere in mostra o offrira alla vista, e mantiene in sè qualcosa di vecchio e distante, evoca sale di museo sempre eguali, etichette mute, e sembra chiudere la possibilità di intendere con le opere un rapporto più completo, a due vie, che le possa mantenere vive nel tempo.

Ormai da qualche decennio l’aria è mutata, le opere d’arte circolano, si muovono e a seconda dell’ambiente in cui vengono presentate e del tema in cui sono inserite, di esse ne vengono evidenziate parti, dettagli, sfumature, relazioni e di conseguenza significati e valori diversi. Il restauro poi, a volte, stravolge teorie consolidate e le fa parlare con linguaggio del tutto nuovo.

E noi stessi, i fruitori, siamo uno dei principli motori di questo cambiamento, con l’accresciuta domanda e il numero in forte ascesa di visitatori attivi, che scrivono commenti, che partecipano a visite guidate, presentazioni, conferenze, dibattiti e stimolano, con commenti e domande, le guide, gli esperti, i critici. Come dicevo, un rapporto a due vie.

La relazione con l’opera si fa più complessa, ricca dell’emozione della scoperta. Quel misto di eccitazione, turbamento e interesse che spinge a documentarsi, ritornare e vedere con occhi nuovi e magari riuscire a collegare arte, storia, scienza, costume in quel che dovrebbe essere un naturale tutt’uno, spesso nascosto.

A Torino, con  l’Abbonamento Musei, le conferenze e le biblioteche, e quant’altro disponibile in Internet, questo è un piacere praticabile e quasi gratis. Tutto ciò è per me stupefacente e appagante!

A questo proposito mi sono proposto di fermare alcune esperienze di colloquio con le opere d’arte dei musei e delle mostre torinesi, radunandole man mano in una raccolta che ho titolato Sguardi Sabaudi, nella speranza di non aver involontariamente rubato questa denominazione ad alcuno.