La soluzione

Fang Lijun - Il precipizio sulle nuvole - 2012

Fang Lijun – Il precipizio sulle nuvole – 2012

Mentre seguiva il tigì, Flavius si alzò di scatto, non ricordava di aver attivato la notifica di consegna mediante messaggio subliminale, ma era meglio così.
Di lì a due minuti il drone si posò silenzioso tra i gelsomini della terrazza. Era la prima volta che utilizzava questa modalità di consegna anche se era in esercizio già da qualche anno. Non che osteggiasse le nuove tecnologie, anzi! Semplicemente, prima del trasloco nella nuova abitazione, non disponeva di un luogo adatto ma ora, nei duecento metri quadri con vista sul fiume, aveva lasciato uno spazio aperto per eseguire alla luce del sole i suoi esercizi di yoga e, all’occorrenza, le tavole di teak erano adatte anche come pista di atterraggio.

Era stato un colpo di fortuna azzeccare quel cinque più uno, e adesso, con un milione abbondante di euro rimasti su conto dopo l’acquisto della nuova casa, avrebbe finalmente soddisfatto il suo desiderio a lungo represso: viaggiare! Da buon Sagittario, con la Nona Casa in Toro, era attratto irresistibilmente dai lunghi viaggi e i rapporti con le persone di oaesi stranieri; tuttavia in questo contesto provava un leggero timore ad allontanarsi dai suoi schemi tradizionali per seguire uno stile di vita diverso. Le grandi civiltà perdute, con le loro organizzazioni sociali arcaiche, erano una calamita per lui e di certo il viaggio più intrigante sarebbe stato quello offerto da un tuffo nel passato. Ma era pigro e nel suo animo il desiderio e l’attuazione erano tra loro in profondo contrasto. Per questo, indipendentemente dalle possibilità economiche, trovava sempre una scusa per declinare le proposte degli amici e rimandare ad un’ occasione migliore.

Ma stavolta aveva trovato la quadra. Ritirò il pacco, piuttosto voluminoso e, per ricevuta, appose l’impronta di indice e medio sulla finestra del minidisplay. Luce verde, un semplice “grazie” in voce sintetica e l’indicazione cortese di spostarsi ad almeno due metri di distanza. Il drone riparti, silenzioso come era arrivato.

Flavius non stava nella pelle. Posato il pacco sul tavolo, aprì l’involucro, una carta perfettamente impermeabile ed idrorepellente, ultimo grido nel campo delle nanotech. Estrasse una memoria da inserire nel generatore di ologrammi. I vecchi libretti di istruzioni e gli help on line ormai erano quasi scomparsi: bastava inserire la chiave e si materializzava un tutor virtuale che illustrava per filo e per segno le cose da fare. Sul sito del Ministero del Turismo e della Cultura Virtuale, con pochi click aveva scelto una novità assoluta, ed era stato tra i primi dieci ad averla prenotata! Non una meta dall’altra parte del mondo, un luogo a due passi, tanto per cominciare: un viaggio a volo radente sull’ Anfiteatro Massimo.

Quando passava da Roma per lavoro, Flavius aveva tentato diverse volte di visitarlo. Una volta era chiuso, un’altra code infinite alla biglietteria. Ci aveva sempre rinunciato.
Ma ora l’Amministrazione dei Beni Storici ed Ambientali, dopo liti e diatribe con i sindacati sui giorni e gli orari di apertura (discussioni infinite con i tecnici della Soprintendenza che volevano ad ogni costo limitare a numero chiuso le visite, pena il crollo del monumento), aveva deliberato sulla soluzione innovativa, proposta dalle menti del Club degli Inventori Sopraffini: Il viaggio virtuale nel reale.
Basta coi video 4D realizzati in UltraDefinizione! La novità era tuffarsi nel reale, trasferire a bordo di una micro mosca sintetica i propri strumenti percettivi (parlo di tutti i sensi, ovviamente) e dopo un breve giro di prova ed adattamento, partire alla scoperta di ogni angolo del monumento, senza muoversi da casa, senza toccare, senza sporcare, meraviglia, senza rovinare, senza consumare. Piccoli e quasi invisibili, ma con la possibilità di una vista a 270 gradi, anche al buio, e vedere, udire, annusare ciò che le pietre e i mattoni avevano immagazzinato, nei secoli. Da dare di testa.
Non che queste tecnologie fossero nuove alle sue orecchie, in soggiorno aveva un’ intera collezione di Urania, ma quando da ragazzo li aveva letti e riletti, mai avrebbe pensato di poterle vivere, un giorno, direttamente sulla pelle.

Ascoltò con attenzione le indicazioni di Criptyco, il tutore che all’occorrenza sapeva parlare anche latino e greco, indossò il caschetto allegato, inserì il connettore nel trasmettitore universale (ormai le unità di calcolo erano disponibili esclusivamente in rete) digitò la password e si distese sul letto, come indicato dalle istruzioni. Guardando al soffitto tirò un bel respiro poi, a voce alta disse: “Vai!”.

Subito non accadde nulla di rilevante, almeno niente di percepibile, a parte un leggero senso di freddo e di vuoto alle tempie. Poi fu come se fosse stato spento l’interruttore generale dei sensi. Pareva di galleggiare al buio, il profumo del gelsomino inghiottito dal nulla, le mani, i piedi e la pelle fatte come di plastica, intorno il silenzio di un vuoto pneumatico, neanche il battito del cuore. Fu un attimo, qualche sfarfallio di luci, rumori acuti, aria fredda sulla pelle, sentore di umido come avesse appena piovuto e stava volando, alto, sull’arena.

Erano gli ultimi momenti del tramonto. Il sole già calava verso Ostia Antica, arrossando le arcate e in cielo prendevano colore straccetti di nuvole rosa. Stormi mutevoli di storni disegnavano l’aria, perdendosi a tratti nel buio incipiente dell’est, verso il colle Oppio. E Flavius riusciva a vedere le une e gli altri, davanti e dietro, insieme. E percepiva il profumo elettrico dell’aria, dopo il temporale, insieme a sentori ferini e l’odore di sudore e di sangue sui selciati. Il rumore, urla di uomini e bestie, sferragliare di carri e cozzare di ferri: tutto vero e assordante. Poi silenzi, lunghi silenzi e versi di civette e di gatti. Cose di adesso e di secoli prima, frammiste, sovrapposte. Di un intenso da overdose, da tramortire i sensi.

Il volo poi, era frenetico, più pazzo di quello degli storni, con virate, scarti improvvisi, fermate da capogiro, in bilico sul ciglio di blocchi di calcare a strapiombo.
Non era preparato a tanto. Decise di anticipare il rientro. Mentre l’insetto High Tech si posava sulla base, la mente di Flavius, o meglio cìò che della sua mente (per questioni di banda) era stato trasmesso, ansiosamente attendeva lo slot in cui infilare ordinatamente i propri dati, senza fare casino e fare ritorno.

Mentre aspettava si accavallavano dubbi, e timori. I suoi sensi, una volta rientrati, sarebbero tornati a funzionare normalmente, senza questa ipersensibilità anomala? E su altro fronte, l’impegno del Club all’integrità e alla non duplicazione dei dati sarebbe stato rispettato?

Lo preoccupava poi quella strana clausola, scritta in piccolo e spuntata in automatico che non era riuscito a disattivare: “Conserva una copia” che voleva dire? Di cosa, dove? Del viaggio o… di quella parte delle sue facoltà, crittate e trasmesse? E se finiva in mano a qualcuno in malaffare o peggio, condivisa per errore o per scherzo su qualche social network? Qualcosa di strano, se lo sentiva, era successo. Disse tra sé e sé che in questi casi la calma e il pensare positivo sono tutto.
Ma non riuscì a trattenersi. Gli tremarono le elitre.

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Franco A. Canavesio – La soluzione – 19 maggio 2014
Fang Lijung – Il precipizio sopra le nuvole – 2012

Due cartelle

Carlo Canavesio - Chine anni '80

Carlo Canavesio – Chine anni ’80

Sono certo che più d’uno comprenderà la commozione e la gioia che ieri sera mi hanno fatto visita, in coppia.
Erano le ventitre passate quando, preso da una strana impazienza, ho rimesso le scarpe e sono sceso in magazzino con l’intentento di cercare un dipinto di mio padre, da riportare in vita, all’aria di Moncucco.
Mentre rovistavo (lì il disordine è sovrano) mi è venuto da aprire un armadio, senza motivo. Sapevo bene che il quadro non poteva essere lì, se non altro per questioni di dimensioni, e ricordavo che dietro quelle ante stavano accatastate solo vecchie cose inutili, rimaste nelle scatole del trasloco anni ottanta, e che solo per pigrizia non erano finite nel cassonetto.
La chiave non ne voleva sapere di girare ma qualche goccia di svitol e pochi attimi di attesa hanno avuto la meglio su anni di ossidi.
All’affaccio, l’occhiata da distratta si è fatta curiosa, quando ho notato sul fondo le fettucce annodate di due voluminose cartelle da disegno, protette da un sacco di nylon trasparente: una in presspan marrone, ancora lucido come la pelle di una castagna d’india, l’altra con qualche pretesa in più, a imitare la scorza di un marmo travertino.
A questa vista già il cuore batteva più sostenuto. Mi sforzavo, ma di quelle due cartelle non avevo ricordi. Di altre sì, simili, dove mio padre conservava i suoi disegni e schizzi. Ho scansato malamente il ciarpame d’imbarazzo e le ho estratte, corpose, del peso denso della carta. Un attimo ed ero già tornato su, seduto, con la prima delle due, aperta sul tavolo di cucina.

Si dice che il cuore tenero, a far da bilancia all’indurimento delle arterie, sia sintomo di vecchiaia incipiente. Sarà anche così (e allora vuol dire che sono vecchio da sempre) fatto sta che alla vista del primo foglio vergato da mio padre mi si è serrata la gola.
Disegni a china, a matita, pastelli, schizzi, prove di stampa di litografie, a decine su fogli marchiati Fabriano, datati tra il ’75 e i primi anni ottanta.
L’inconfondibile eleganza del segno di mio padre, leggero e fantasioso, come nei progetti di gioielli, collari e pendagli, da realizzare in smalto a gran fuoco: li vedevo per la prima volta. Non so per quale ragione mio padre non aveva mai condiviso il contenuto di quelle cartelle e in particolare due fogli, tecnicamente meno riusciti di altri, ma per me importanti: un autoritratto a penna in cui figura con l’inseparabile cappello e una china, un po’ spiegazzata in un angolo, con una dedica: “per il tuo ventisettesimo compleanno, tuo papà”.
Mi piace pensare che questa sua scelta sia stata intenzionale, celare un piccolo tesoro perchè io lo scoprissi, dopo anni.

Non è finita qui, c’è un terzo foglio che voglio menzionare. Nella consueta sintesi dei tratti, è raffigurato un uomo col braccio teso e un topolino sul palmo aperto.
Fin da piccolo, per mio padre, io ero il suo “ratin” e mi ha sempre portato in palmo di mano.


i tuoi svolazzi li ho davanti
lindi
dopo anni
penna su carta
nuvole di punti
l’anima bambina
e il senso naturale della grazia
di chi ha nuvole chiare nella mente

….

F. A. Canavesio – Due cartelle – 20 Febbraio 2014

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Intero

Baccio Bandinelli - Ercole dormiente - Hermitage, San Pietroburgo

Baccio Bandinelli – Ercole dormiente – Hermitage, San Pietroburgo

Mio caro Marco,
Sono andato stamattina dal mio medico, Ermogene, recentemente rientrato in Villa da un lungo viaggio in Asia. Bisognava che mi visitasse a digiuno ed eravamo d’accordo per incontrarci di primo mattino. Ho deposto mantello e tunica; mi sono adagiato sul letto. Ti risparmio particolari che sarebbero altrettanto sgradevoli per te quanto lo sono per me, e la descrizione del corpo d’un uomo che s’inoltra negli anni ed è vicino a morire di un’idropisia del cuore. Diciamo solo che ho tossito, respirato, trattenuto il fiato, secondo le indicazioni di Ermogene, allarmato suo malgrado per la rapidità dei progressi del male, pronto ad attribuirne la colpa al giovane Giolla, che m’ha curato in sua assenza. È difficile rimanere imperatore in presenza di un medico; difficile anche conservare la propria essenza umana; l’occhio del medico non vede in me che un aggregato di umori, povero amalgama di linfa e di sangue. E per la prima volta, stamane, m’è venuto in mente che il mio corpo, compagno fedele, amico sicuro e a me noto più dell’anima, è solo un mostro subdolo che finirà per divorare il padrone. Basta…

Marguerite Yourcenar – Memorie di Adriano (Incipit) – 1951.

Sono sessant’anni che albergo in questo corpo e solo adesso comincio a sentirlo come la mia casa.
Di questo insieme percepivo solo vagamente la complessità. Le strutture e gli organi li sentivo solo a volte, separati, uno ad uno, quando qualcosa non funzionava e le parti diventavano un peso, un impiccio, una frazione inadeguata da modificare o addirittura di cui sbarazzarsi.
Solo in qualche raro momento sono arrivato a sentirlo tutto, nel sua interezza, di solito mentre galleggiavo in mare e ancor più quando, uscito dall’acqua, mi sdraiavo a cuocere sulla sabbia, oppure dopo una salita in montagna, sdraiato a terra, con gli occhi al sole. E la percezione dell’intero non era disgiunta da quella di appartenenza, vuoi all’acqua, vuoi alla sabbia o alla terra o ancora all’aria e al sole.
Mi chiedo come ho fatto a non pormi prima questa domanda: perchè non ho consapevolezza del mio corpo, perchè lo sento al più come un insieme di pezzi? Scavando negli anni, già fin dall’infanzia, non ho ritrovato insegnamenti e abitudini consone ad aiutarmi e spingermi ad amare il mio corpo, per quello che è, nella sua totalità?
Non nella famiglia, neppure nella scuola, tantomeno nell’ambito della sanità e nell’ambiente religioso: scarsa attenzione per il corpo, inteso solo come entità indefinita di servizio a cui richiedere, senza concedere. Una sostanziale mancanza di riconoscimento e quindi di considerazione e di rispetto per la sua interezza, che già è poco in confronto ai sentimenti di compassione ed amore che comincio a provare, solo ora.
Cì è voluto l’accumulo di tensioni, la malattia e l’incontro risolutivo con alcune persone per trovare la guarigione, quel percorso di miglioramento, lungo tutta la vita, che passa necessariamente attraverso la ritrovata consapevolezza del proprio corpo.

Quando ho bisogno siedo di fronte alle stelle
come in un fiume mi spoglio
e con gesto da film espongo la pelle

alieno buono
mi faccio antenna del mondo
convoglio messaggi dagli astri
quel tanto che serve a sentire intero il mio corpo
non pretendo che l’acqua bolla sotto le piante
le mie gambe mettano ali o il sangue inverta il suo corso

mi basta ricucire i pezzi
col respiro del sole
dar voce al chiaro e allo scuro
sentire come mia
anche la parte negletta

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Franco A. Canavesio – Intero – 1 ottobre 2013

Questo giardino

Questo giardino - 1

Questo giardino – 1

E’ una fortuna e la storia si ripete ogni volta con qualche variante di luce e colore, a seconda della stagione. Stavolta il tripudio di tinte e profumi era forse al suo apice, come mai l’avevo percepito in quarant’anni, conservando nella memoria il suo crescere e variare in armonia, nel corso del tempo.

Perchè questo giardino si vive con i sensi al completo: le foglie e le corolle le tocchi per forza, passando gli stretti sentieri e lo senti il ronzare dei calabroni, posati come gemelli sul polsino bianco dell’iris.

E il tepore rossiccio dei mattoni quando siedi sul gradino e il verde, fratello di tutti i colori, ti corona il capo e copre gli sguardi oltre il castello, profilo sul colle di fronte.

Se la mano si immerge a turbare il fresco di una pozza, rinvieni e il piacere è così intenso che dei profumi percepisci solo l’astratto che lascia in quiete le risposte violente di impreparate mucose cittadine.
Su tutto sovrasta il colore in forma di sfere, lance, farfalle. Non so dire il nome dei fiori: non importa, conta l’insieme e il senso di gioia dell’occhio che non può stare fermo e rincorre le tinte fino a inciampare nell’intrico dei verdi e dei bruni sul fondo.

Questo giardino è anche un po’ mio, ne conservo il ricordo muschioso del primo giorno, ne ho visto il bello crescente, cangiare di ogni stagione. Privilegio goderne da spettatore, senza la costante, quotidiana fatica del fare.

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F. A. Canavesio – Questo giardino – 1 giugno 2013

Guarire

Dalla finestra - F. A. Canavesio (4/2013)

Dalla finestra – F. A. Canavesio (4/2013)

Mi trovo a mio agio in questo pezzo di Torino, a lato di via Po e Piazza Vittorio. Ci ho studiato. In quelle vie, all’uscita dall’Artistico, ho tenuto per mano la prima ragazzina e anche adesso c’è vita giovane e allo stesso tempo botteghe artigiane, coi vecchi maestri che fan vedere senza remore il loro mestiere e son capaci di dedicarti anche un ‘ora per mostrarti che “quella cosa” si può fare.

Amo anche le case, facciate lisce di inizio ottocento e cortili con la sternia, ma stamattina ho suonato a un portone decò e ho visto i due piani sfilare da seduto, sul divanetto in velluto granata dell’ascensore. Legni, bronzi e ferro battuto e la pulsantiera in bachelite coi piani scritti a penna, per esteso: primo piano, secondo piano … ultimo piano, su etichette di carta pergamena.

Mi ha aperto l’infermiera, gentile, un filo di voce, appena più forte del sottofondo di musica indiana. Mi ha offerto una scheda da compilare, su una lavagnetta da appoggio e la penna, come su un cabaret. E mi ha invitato a sedere in una sala semplice, piena di luce con affaccio sul retro giardino di Palazzo Accorsi e una fetta di Mole, dritta al sole dell’est.

Il tempo di godere la vista e mi viene incontro la dottoressa, di sicuro francese per l’aspetto e il parlare. Un lungo parlare di quasi due ore, colloquio, attenzione e piacere crescente, credo da ambo le parti.
Poi le sue mani sulla mia schiena, il collo, sugli arti, in piedi, sdraiato. Asimmetrie, tensioni, accumulate in anni. Movimenti, tocchi di dita appena percettibili o più sostenuti e mie involontarie reazioni, tremori, sussulti, anche violenti.

Far sentire alla mente tutto ciò che è fuori posto, consapevolezza per attivare i meccanismi innati di guarigione.
Il guarire va per vie interiori, sulla strada simboli, passi di consapevolezza, verso il riequilibrio.
Oggi, con la schiena dritta, non sento dolore di fronte all’ardire di questo spicchio fermo di Mole e alle bugne del platano antico, forte e fragile nel verde, appena accennato.

Oggi, il segno è la bellezza del contrasto. Stabilità. Cambiamento. E domani da questa stessa finestra il verde sarà meno trasparente, di una diversa e più densa bellezza.

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Franco. Antonio Canavesio – 18 aprile 2013
Fotografia – Dalla finestra – F. A. Canavesio

Mi manca un camino

Sedie

Se li conti sono sedici sedie, sette poltrone, due sgabelli e anche sette tavolini.
Troppi, ti accorgi dell’inutile quantità solo quando li devi spostare, radunare, per forza maggiore in un’unica stanza.
Poi tiri dietro la porta e ritrovi lo spazio, respiri, per un attimo vagheggi il repulisti finale. Ma manca la forza, tutto ha un valore, un film associato, un posto fisso in esposizione e allora so già che i pezzi da museo torneranno al loro posto, tutti, rassicuranti, a farmi inciampare nella gimcana tra gambe Luigi qualcosa, riccioli barocchetti, rivestimenti di lampasso, su sedute scomode e schienali da tortura che nel tempo hanno fatto ridere tappezzieri e restauratori. E piangere il mio portafogli.

Mi manca un camino, o almeno una stufa, e poi un’ascia e una guerra, che mi costringa a farli a pezzi e buttarli nel fuoco per scaldarmi, il prossimo inverno.

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Fotografia  –  Franco  A. Canavesio  –  Sedie

Il cercatore di violini

Dal racconto “Tano” – Ultime notizie dal Sud
Luis Sepulveda – 2011 – Ugo Guanda Editore

Tano

Tano, il cercatore di violini

Un uomo camminava nella nostra stessa direzione. Lo raggiungemmo. Era giovane, aveva lunghi capelli neri, baffi folti su un sorriso amichevole e un paio di occhiali da motociclista per proteggersi dalla polvere. Il mio socio abbassò il finestrino e lo salutò con un «Buongiorno, amico» a cui l’altro rispose con un ilare: « Lo sarà di sicuro».
«Dove va di bello?»
«Vado avanti, come quasi tutti» replicò lui.
«Una logica schiacciante» commentò il mio socio, e lo vedemmo proseguire. Si muoveva con scioltezza, come se si godesse con particolare piacere quella camminata in mezzo al vento e alla polvere. A tratti si portava una mano sopra gli occhiali a mo’  di visiera e scrutava l’orizzonte. Lo raggiungemmo di nuovo.
«Cerca qualcosa?»
Si fermò, tolse gli occhiali da motociclista e ci osservò con calma prima di rispondere.
«Sto cercando un violino.»
Perche no? Ci può essere qualcosa di più sensato che cercare un violino in mezzo alla steppa? Se avesse risposto che cercava un ago, avremmo dedotto che si trattava di un eremita che era meglio lasciare solo, ma un violino è la metafora della dolcezza e della tristezza, perciò gli rispondemmo che negli ultimi trenta chilometri non ne avevamo visto nemmeno uno.
«Non mi stupisce, ma io lo troverò. Chi cerca trova.»
Allora parcheggiammo l’automobile lungo la strada e ci unimmo alla ricerca.
Dopo aver camminato per un paio di chilometri in mezzo a quel polverone atroce, senza scambiare neppure una parola, ascoltando il sibilo del vento e anche il vasto repertorio dello sconosciuto che fischiettava di tutto, dalle canzoni di Silvio Rodriguez alla Cavalleria rusticana, giungemmo alla conclusione che cercare un violino in quelle condizioni era particolarmente difficile. Vedemmo pecore, teros, altre pecore, ciuffi di calafate, ma niente che somigliasse a uno strumento a corde. Eppure il sorriso di quel tizio restava inalterabile, come lo zelo con cui continuava a cercare.
«Ma questo violino quando l’ha perso, amico?»
«Chi l’ha detto che l’ho perso? Come facevo a perderlo se ancora non l’ho trovato?» ribattè in un’altra schiacciante dimostrazione logica.
Continuammo a camminare, cercando il violino con gli occhi mezzo chiusi per evitare la polvere che si infilava da tutte le parti, ma che non infastidiva quell’uomo, grazie ai suoi occhiali.
«Hai un nome?» domandò il mio socio.
«Certo, sono un cristiano come tutti gli altri. Però anche se ce l’ho, mi chiamano Tano perchè il mio vecchio era tano (soprannome dato agli immigrati italiani in Argentina e Uruguay). Veniva dalla Calabria. Ehi, se non volete continuare a cercare, nessuno vi obbliga ad accompagnarmi.»
Non è giusto contraddire un uomo impegnato in un compito serio come quello di trovare un violino a sud del quarantaduesimo parallelo, perciò continuammo quella marcia lenta. Vento, polvere e ancora vento. Ogni tanto il mio socio e io ci guardavamo e ci dicevamo in silenzio: «Altri due chilometri e poi torniamo alla macchina», finchè il tipo non affrettò il passo costringendoci prima a trottare e poi a correre fino a una montagna di legname ammucchiato in mezzo alla steppa. Erano resti di staccionate, rami secchi, pezzi di traversine di ferrovie, tutto sistemato come per accendere un gigantesco falò, e a giudicare dalla polvere che lo copriva era lì da un pezzo.
Il Tano si tolse il giubbotto e cominciò a separare i legni. Li spolverava, li annusava, ci batteva sopra con le nocche avvicinando l’orecchio, finchè non trovò un resto di traversina e gli dedicò particolare attenzione colpendolo con un minuscolo martello d’argento.  Allora si tolse gli occhiali da motociclista e con gli occhi lucidi per l’emozione abbracciò il pezzo di legno.
«Lo abbiamo trovato, ragazzi! Erano mesi che lo cercavo e finalmente l’ho trovato» gridò esultante e ci abbracciò, e anche noi ci abbracciammo festeggiando la scoperta.

 – o – oo – ooo – oo – o –

Ipsilon - Massimo Mannucci

Ipsilon – Massimo Mannucci

Passa il suo tempo sul filo del mare
lungo le coste attende tempeste
tronchi posati dall’onda

indugia tra la rena e i sassi
c’è quiete non importa dove
se un’isola o un continente

la vampa del sole
l’acido bianco del sale
a scalzare cortecce

in mostra la fibra
il lucore compatto
riverberi di acustica perfetta

avverte il vibrare
da una crepa il midollo

stupore il richiamo
di un’arpa negletta

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Franco Antonio Canavesio  – Il cercatore di violini  –  22 dicembre 2012
Fotografie:  Tano,  Daniel Mordzinski  –  Ipsilon,  Massimo Mannucci

Dietro l’immagine

Alla caccia sul fiume – Edoardo Perotti (circa 1870)

Prendo a prestito il titolo di un interessante volume di Federico Zeri.
Alle volte un dipinto, anche apparentemente incantato, può celare una realtà drammatica o addirittura una storia terribile.
Ne è un esempio questo olio di Edoardo Perotti, che dopo il restauro ha rivelato elementi prima nascosti. Volutamente, perchè?

Si legge che il Perotti, fin da giovane, fu preso da due passioni, la pittura e la caccia. E quando due passioni si fondono e l’una trae linfa dall’altra, l’azione ed il coinvolgimento raggiungono vertici estremi aprendo le porte ad espressioni intense, liriche dove l’emozione travalica i sensi.

E’ il caso di questo dipinto. La delicatezza delle luci, il silenzio dell’orizzonte, la maestosità immobile della natura sono come un profondo e lento respiro che colma ogni angolo del corpo. Al culmine, per un attimo si trattiene il fiato, e i sensi irrorati trasmettono a velocità e intensità crescente fiotti di emozioni in un movimento di espansione e comunione con quanto ci circonda.

Ma l’equilibrio è instabile, fragile come il silenzio rotto dal tuono dei fucili.
Un colpo, due colpi, cento battiti convulsi di ali. Un grido. Il latrare dei cani in corsa verso le prede. Un lamento. Il compagno di caccia, colpito per sbaglio, si accascia sul fondo della barca.

Era il 10 agosto 1870 e questo accadde quel giorno. Come nel quadro dipinto anni prima, Edoardo Perotti moriva per mano di un compagno in un incidente di caccia lasciando nella costernazione familiari ed amici.

E proprio quella tela, ancora nello studio e forse incompleta, diventa presagio di sventura, insopportabile e angoscioso, con il cacciatore che pare puntare lo schioppo e colpire il compagno. La si vorrebbe squarciare, o forse bruciare, ma il paesaggio è così dolce e suadente. In fondo se un’ombra o un improvviso banco di nebbia avvolgesse e coprisse la barca e lo schioppo, il silenzio tornerebbe sovrano.
E allora un colpo, uno solo, ancora i battiti convulsi di ali e il latrare dei cani.

La pietosa mano di un collega pittore stende con delicati colpi di martora un velo di nebbia. La barca, gli amici, il fucile escono di scena. La vista non genera più sgomento ed il ricordo angoscioso si acquieta. Resta la luce, chiara, e il silenzio.

Particolare del dipinto, prima e dopo il restauro

Caso o premonizione? Chi può dirlo!

Restano i risultati documentati dal restauro. La barca con i due cacciatori è stata ricoperta (ma non la loro ombra) da uno strato di colore ed il cielo reso più opaco e grigio e la pietosa bugia di un cronista della Gazzetta Piemontese che descrive il Perotti morto per un attacco cardiaco mentre beve il caffè.
A distanza di alcuni decenni una lontana parente, all’atto della vendita del quadro, racconterà la vera storia.

Gazzetta Piemontese 10 agosto 1870

La notizia della morte di Edoardo Perotti

Cosa c’è dietro a un quadro rimasto per anni appeso
al centro del muro nel salotto buono di casa
“la donna non lo deve toccare lo spolvero io”
diceva la madama quasi a nascondere il dramma

E vola il piumino
un gesto di danza sveglia ogni mattino l’alba sul fiume
una barca gli alberi magri lo starnazzo di anatre azzurre
al colpo di schioppo sull’acqua

Polvere e buio per anni il dipinto viene in mia mano
un restauro paziente svanisce le nebbie e vien fuori
una scena diversa
le barche son due con altri compari di caccia

un fucile minaccia sembra puntato al compagno di fronte
la mira è sbagliata forse è la barca che ondeggia
lo sparo un lampo l’amico stramazza

Era il dieci agosto del milleottocentosettanta
La Gazzetta dà la notizia
un cronista già allora bugiardo racconta non senza pena
dell’uomo famoso amico pittore e il suo inguaribile vizio
la caccia
morte improvvisa un colpo di cuore mentre sorseggia il caffè

Sul cavalletto di studio il quadro non ancora finito
presagio e ricordo angoscia per la sposa distrutta

Un collega pittore sfuma la scena gesto pietoso
la bruma inghiotte la barca lo schioppo
il ferale colpo di troppo

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Franco Antonio Canavesio   –   Dietro l’immagine   –   28 novembre 2012

Movimenti

Swissrock – Heureka – Jean Tinguely – 1964 – Losanna

Nel 1964, per l’esposizione nazionale svizzera a Losanna, Jean Tinguely creò il suo Heureka, poi esposto allo Zürichhorn. Le sue macchine sono divenute in tutto il mondo un simbolo della società dei consumi e dell’industria, che si esaurisce nella sua attività frenetica e finisce nell’assurdo.

Può il vento o la pioggia
risvegliare mostri pesanti
garbuglio di guizzi repressi
solo possibili a singoli pezzi
o piccoli gruppi oliati

non orologi pensati da menti perfette
differenti insiemi di cose nate per muovere
destinate a ritmi scomposti
o a stare posate
per sempre

Trasformare il moto
in dimensione assurda
di pesantezza

una macchina greve
cigola inceppa
singulti
si ferma

il vento suona lamine storte

la ruggine beve gocce di pioggia

rossa
si scioglie

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Franco Antonio Canavesio – Movimenti – 6 novembre 2012

Oltre i cancelli di Ashraf

Recentemente ho avuto occasione di partecipare alla proiezione di un documentario dal titolo “La lunga strada – lotte per la democrazia in Iran“. Il video e l’interessante ed ampio dibattito che ne è seguito, mi ha permesso di rivedere in un’ottica completamente nuova il tema, dimenticato, trascurato e spesso completamente travisato dai media. Trent’anni di lotte dei mujahidin del popolo, dentro l’Iran e fuori, con otto milioni di esuli sparsi nel mondo.

Ho appreso dell’ incontro di Parigi in cui molti illustri personaggi internazionali si sono uniti alla manifestazione di oltre 120.000 persone per protestare contro le politiche del regime iraniano. Più di centomila persone: ne avete sentito parlare sulle TV nazionali? Mi dicono di un minuto dedicato dal TG2 , praticamente un dovere, per citare la partecipazione di Emma Bonino.

A capo del comitato nazionale di resistenza iraniana all’estero (CNRI) una donna, Maryam Rajavi , a cui dedico queste parole.

Ho ardito muovere contro
mangiando miele e locuste
con i mujahidin di Ashraf.

Oltre i leoni di Persia
storie di pece e galera
di morti sotto tortura.

Qui si resiste in tremila
per dare vita al futuro
le mani serrate a catena

con altri milioni nel mondo
tra il silenzio dei media
e giornali venduti ai mullah.

Di fronte il doppio veleno
del bieco fascismo di dio
alimento di guerra e terrore.

Trent’anni di resistenza
di donne, tante, e uomini
con sulle spalle la Storia.

Io sono una di questi,
il nome mio è Maryam.

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Franco Antonio Canavesio – Oltre i cancelli di Ashraf – Giugno 2012