Ho visto pesci di scoglio posati su un piatto d’argento
lungo la strada che a svolte scende dal colle alla riva
a ogni curva colgo due triglie, uno scorfano rosso coi baffi
a fatica reggo il senso della scaglie che sfioran la mano
e lo sguardo fisso degli occhi verso un fuori lontano.
Un’ultima curva e appare ciò che a sera resta del blu
sabbia a distesa e due dita d’acqua pulita che a gambero
avanza i miei passi e non riesco a bagnar le caviglie
avrei bisogno di fresco, non serve andare più lesto
ora che sono distante ne temo l’improvviso tornare.
Il sole è calato alle spalle tirato giù per gli stracci
dietro il profilo dei colli o nascosto nel fondo del mare
la cosa che più dà sgomento è che non tocco non vedo
non sento nemmeno il pulsare del corpo che pure è vitale
e teme monti alla gola l’avanzare nero dell’ombra.
Ma l’acqua che ora risale è frizzante come di fonte
canta e il suo gorgoglio scioglie le membra, la mente
supino forse galleggio su miscroscopiche bolle
o volo raso sull’acqua per ignota destinazione
non vedo isole intorno e la riva è nascosta dal buio.
Mi sveglia uno schizzo salato e con l’improvviso bagliore
il timore di essere nudo, nel sole, che il raggio metta
in chiaro ciò che prima era e ora manca
ma sento che l’occhio è vuoto non vede il vasto del mare
neppure il piatto d’argento che alla luce dovrebbe brillare.
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Franco Antonio Canavesio – Ciò che resta del mare – Agosto 2012